domenica 26 giugno 2016

Servitization: come sarà il futuro delle aziende manifatturiere?

Il termine servitization è stato definito nel 1988 da Sandra Van der Merwe e Juan Rada in un articolo intitolato: “Servitization of business: adding value by adding services”. Aggiungere servizi ai prodotti permette alle imprese di:
  • soddisfare meglio i desideri dei clienti, 
  • differenziarsi rispetto ai concorrenti,
  • rendere più complessa per i clienti la sostituzione dei prodotti, aumentando di fatto la loro fedeltà.

Dal 1988 il valore dei servizi associati ai prodotti è cresciuto in quasi tutti i settori di mercato ed il confine tra prodotti e servizi è diventato sempre più sfumato: si pensi ad esempio agli smartphone, che sono una combinazione di elementi fisici, software e servizi ed ognuna di queste tre componenti è necessaria per la creazione di valore.

Pochi giorni fa il World Economic Forum ha pubblicato un articolo dal titolo: “The end of products, the end of ownership. Is this the future of business?”. L’autore sostiene che vi sono 3 importanti trend che contribuiscono a rafforzare il processo di servitization:
  • Cambiamento culturale: la proprietà di un oggetto è sempre meno interessante, se mediante una app, posso comunque utilizzarlo dovunque ed in qualsiasi momento ad un costo ridotto,
  • Internet of Things: i produttori resteranno connessi con i loro prodotti durante la loro intera vita e potranno/dovranno fornire servizi ad alto valore aggiunto durante l’utilizzo stesso dei prodotti,
  • Sostenibilità: l’economia dei servizi è più sostenibile dell’economia dei prodotti soprattutto perchè i prodotti possono essere utilizzati in modo più intensivo se si supera il concetto di possesso degli oggetti.

Per le aziende manifatturiere, la servitization è una rivoluzione. Obbligatoria, ma non esente da rischi. Alcuni studi (non tutti) hanno infatti evidenziato un fenomeno chiamato "servitization paradox": la servitization permette di aumentare il fatturato, ma può ridurre le prestazioni aziendali (profitto) ed aumentare il rischio di fallimento dell’impresa (si veda ad esempio: Why do servitized firms fail? del 2009).
Questo è comprensibile perché il modello di business e le competenze necessarie all’erogazione di servizi sono molto diverse da quelle che le aziende manifatturiere utilizzano per la produzione e la vendita di prodotti.
I servizi tendono infatti a far aumentare i costi fissi ed a rendere i flussi di denaro in ingresso più esigui, anche se più stabili e duraturi nel tempo. È dunque necessario che le imprese adeguino prontamente i modelli di business per garantire la sostenibilità economica della servitization.

Ma forse il problema più grande dell’approccio ai servizi delle aziende manifatturiere è la maggiore prossimità con i clienti che i servizi richiedono. Oggi molte aziende manifatturiere non sono molto “vicine” agli utilizzatori: spesso infatti non sanno nemmeno chi stia utilizzando i loro prodotti. Nel mondo dei servizi questo non è possibile: non si tratta infatti soltanto di mettere sul mercato uno “strumento”, quanto piuttosto di accompagnare ogni singolo utilizzatore verso il raggiungimento dei propri obiettivi. La complessità aumenta dunque in modo significativo, sia perché i processi di utilizzo dello stesso prodotto possono essere molto diversi tra loro, sia perché i servizi dovranno essere erogati dovunque ed in qualsiasi momento.
L’unico modo per erogare servizi a costi sostenibili è dunque quello di automatizzarli il più possibile, utilizzando tecnologie di connessione ed elaborazione dati che permettano di ottenere un’elevata qualità dei servizi erogati riducendo al minimo l’intervento umano. 
L’erogazione dei servizi deve dunque essere integrata nel prodotto stesso.
I servizi devono allora nascere insieme al prodotto: è necessario ideare insieme prodotti, servizi e modelli di business.

È possibile allora utilizzare lo schema seguente per definire come dovrà comportarsi il prodotto/servizio durante l'esperienza di utilizzo:


Sarà inoltre necessario definire fin da subito che cosa gli utilizzatori dovranno pagare con un prezzo one-shot e che cosa mediante un prezzo dilazionato nel tempo (ad es. canone d'abbonamento o pay-per-use).
Dovrà quindi essere preparato un modello economico accurato e preciso per valutare e garantire la sostenibilità e la convenienza dell'introduzione dei nuovi servizi.

domenica 12 giugno 2016

Open innovation per le piccole medie imprese



È opinione comune che nel mercato liquido ci sia spazio soltanto per le imprese di grandi dimensioni. Secondo me questo non è corretto. Sicuramente piccolo non va bene se bisogna produrre in serie decine di migliaia di prodotti. In questo caso gli investimenti necessari per farlo in modo efficiente non sono sicuramente alla portata delle piccole imprese. Piccolo non va bene nemmeno se devo realizzare prodotti molto complessi ed innovativi, come l’auto che si guida da sola. Anche in questo caso gli investimenti (per la ricerca) non sarebbero sostenibili da una piccola azienda.
Piccolo è invece bello, quando è sinonimo di specializzazione, di flessibilità, di velocità e di grande vicinanza con il cliente. Piccolo è bello se voglio produrre pezzi unici: opere d’arte, che si adattano in modo sartoriale alle esigenze di ogni singolo cliente. Anche le grandi aziende potrebbero farlo, ma inevitabilmente per loro diventa più conveniente cercare altri clienti, ai quali vendere prodotti standard.

Grandi e piccole imprese occupano dunque nicchie di mercato diverse ed utilizzano approcci al business diversi. Anche i macro-punti di forza e di debolezza sono diversi: le grandi imprese hanno spesso problemi di creatività, di flessibilità e di velocità, mentre le piccole hanno problemi “di accesso”: alla conoscenza, ai mercati, al credito.

Nel mondo liquido tutte le imprese devono innovare continuamente i propri prodotti e servizi e la open innovation è un approccio efficace per imprese di qualsiasi dimensione. 
Il concetto di open innovation è stato descritto da Henry Chesbrough nel 2003 ed in sostanza prevede di accelerare l'innovazione e di ridurne i rischi utilizzando flussi di informazioni e risorse che provengono anche dall’esterno dell'impresa. 

Secondo una ricerca di Fraunhofer del 2013, il 75% delle grandi imprese considera strategica l’open innovation per realizzare le proprie strategie di innovazione. Le grandi aziende utilizzano la open innovation soprattutto per raccogliere idee dall’esterno o per costruire velocemente un minimum viable product da verificare sul mercato. Lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione del prodotto vengono poi realizzati dalla grande azienda, che può così utilizzare in modo efficace i propri asset.

Esiste però un altro possibile approccio alla open innovation, utile in particolar modo per superare i problemi di "accesso" alla conoscenza, al mercato ed agli investimenti delle piccole e medie imprese. Un gruppo di aziende può infatti collaborare per sviluppare un prodotto specifico o per presidiare in modo più efficace un mercato. Questa collaborazione permette alle piccole e medie imprese di realizzare prodotti che singolarmente non potrebbero nemmeno immaginare, riducendo inoltre gli investimenti, i rischi ed i tempi necessari per lo sviluppo.
Questa applicazione dell'open innovation non è ancora molto diffusa, soprattutto tra le piccole e medie imprese italiane. Vorrei allora dare un piccolo contributo alla sua diffusione, condividendo le cose imparate negli ultimi 3 anni in progetti di open innovation per sviluppare nuovi prodotti:
  • Accettare l’idea di collaborare con altre imprese per lo sviluppo di un nuovo prodotto è inizialmente molto difficile: è un approccio che molti imprenditori non riescono nemmeno ad immaginare. 
  • Una volta iniziato, il progetto genera entusiasmo, man mano che diventa evidente la possibilità concreta per ogni azienda di superare i propri limiti.
  • Spesso i progetti di open innovation vengono considerati a priorità più bassa rispetto alle normali attività di sviluppo e quindi i tempi si allungano, vanificando alcuni dei benefici potenziali. 
  • I meccanismi decisionali sono più complessi: diverse aziende sono coinvolte ed i partecipanti al team spesso non hanno l’autorità per decidere. Anche questo contribuisce ad allungare i tempi.
  • Il momento in cui iniziano gli investimenti significativi è critico. È necessario dunque arrivarci dopo aver effettuato verifiche di mercato preliminari e se possibile dopo aver realizzato un minimum viable product per confermare le potenzialità del prodotto. Può comunque accadere che in questa fase alcune imprese abbandonino il progetto, mentre altre possono entrare nel team.
  • Dovendo far collaborare aziende diverse, il processo di open innovation utilizza spesso metodi più strutturati di quelli normalmente utilizzati dalle singole aziende (business plan, piani di sviluppo, definizione dei requisiti, ...). Questi metodi risultano efficaci e vengono poi spesso applicati anche agli altri progetti delle singole aziende.
  • La "tensione all'obiettivo" delle aziende partecipanti deve essere omogenea, altrimenti le aziende più determinate soffriranno della lentezza e della scarsa propensione agli investimenti delle altre.
  • Se si progetta un prodotto modulare per il quale ogni azienda produce alcuni moduli, tutto risulta più semplice.
  • Vi sono diversi modi di formalizzare gli accordi tra le imprese (dai contratti di rete alla creazione di una start-up), ma conviene affrontare questo aspetto soltanto quando il progetto è concreto ed è giunto il momento di iniziare gli investimenti significativi. Prima è sufficiente basarsi su un non disclosure agreement più leggero.
In conclusione io credo che la open innovation sia una grande possibilità per le piccole e medie imprese, che possono collaborare efficacemente su progetti specifici, mantenendo un’organizzazione leggera, preservando la propria identità e contribuendo a mantenere le “diversità” culturali e di approccio, che rendono più fecondo qualsiasi mercato.